Il grana padano abbassa la pressione?

da Aduc – di Primo Mastrantoni

All’European Meeting on Hypertension 2012, in Gran Bretagna,  e’ stata presentata la ricerca (1) di un gruppo italiano sugli effetti benefici che il grana padano avrebbe sulla pressione arteriosa. Responsabili sarebbero alcune sostanze contenute nel grana padano che avrebbero una azione inibitoria dell’enzima di conversione dell’angiotensina, che agisce  sulla pressione arteriosa. Gli autori hanno selezionato 29 soggetti in terapia antipertensiva che non assumevano farmaci ed hanno integrato la loro dieta con 30 g di grana padano per due mesi, senza alterare l’apporto calorico totale. Dopo il trattamento non si sono verificate variazioni nell’indice di massa corporea e nei valori del colesterolo totale e HDL, dei trigliceridi, della  glicemia, del sodio e potassio. I risultati raccolti sono comparabili a quelli dei farmaci e superiori a quelli ottenuti con la sola restrizione del sodio alimentare. I risultati migliori si sono ottenuti con i formaggi mediamente invecchiati (9-12 mesi) perché in quel periodo la concentrazione delle sostanze inibenti e’ maggiore. Riguardo ai dubbi sull’eccessivo apporto di acidi grassi saturi e sodio col formaggio, gli autori fanno notare che questo tipo di formaggio non e’ particolarmente ricco di grassi o di sodio, almeno in confronto con altri alimenti consumati: 30 g di grana padano contengono 128-129 mg di sodio e 6 g di grassi (4 g saturi, 2 g insaturi). L’effetto del grana padano non si somma a quello dei farmaci. Insomma, notizia confortante. L’idea di curarsi mangiando e gustando non ci dispiace.
(1) Crippa G et al. Dietary Integration with Grana Padano cheese effectively reduces blood pressure in hypertensive patients. J Hypertension 2012; 30 (e-Supplement A): e376.

L’uovo spray nella bomboletta nera fa discutere, ilfattoalimentare ha scritto un articolo e scatta la polemica fra i lettori

di Roberto La Pira

È arrivato l’uovo spray e ilfattoalimentare.it ha scritto un articolo perché il prodotto ci ha incuriosito. Di solito alimenti così innovativi approdano prima sul mercato giapponese, dove si trovano formulazioni bizzarre poco in sintonia con la cultura mediterranea. Questa volta le uova spray (soprannominate Eggy) sono arrivate in anteprima in Italia, e la notizia sul sito ha provocato decine di commenti, tanto da essere la più ciccata e la più commentata.

Alcuni lettori parlano di cibo spazzatura, altri preferiscono citare Frankenstein, i meno aggressivi focalizzano l’attenzione sull’acido sorbico usato come additivo e altri si interrogano sull’impatto ambientale e sull’utilità delle uova in bomboletta. Tanto stupore e acredine dipende dal fatto che il passaggio dall’uovo della gallina a quello spray è molto brusco, e risulta difficile da assimilare perchè è mancato un prodotto intermedio.

 

 

 

Per altri alimenti i passaggi sono stati meno traumatici. Basta pensare al caffè in grani venduto prima macinato, poi liofilizzato e adesso in capsule. La lattuga del fruttivendolo in pochi anni è diventata insalata in busta pronta, mentre il pesce azzurro è stato trasformato in filetti e poi confezionato in atmosfera modificata in vaschette che si conservano per 10 giorni. Qualche dubbio ha suscitato il forno a microonde, per anni ingiustamente accusato delle peggiori disgrazie.

L’immagine dell’uovo di gallina trasformato in bomboletta spray è davvero  forte, perchè nella cultura gastronomica italiana manca il passaggio intermedio, ovvero l’uovo liquido pastorizzato venduto in brick simili a quelli del latte. Pochi consumatori li conoscono, anche se da anni si trovano sugli scaffali dei supermercati. Per la maggior parte delle persone l’uovo è solo quello della gallina. 

 

In realtà alle pasticcerie e alle gelaterie artigianali, come pure alle cucine dei ristoranti e delle comunità è vivamente consigliato  l’uso delle uova liquide pastorizzate in brick, per evitare la contaminazione microbica del cibo.
In ambito professionale il passaggio dall’uovo liquido all’uovo nella bomboletta rappresenta  una novità tecnologica che non stupisce più di tanto. In fondo si tratta di un prodotto liquido “in version spray” come la panna montata.

 

Un altro elemento che non gioca a favore di Eggy, è che l’uovo nella bomboletta scompare e si vanifica nell’anidride carbonica, alimentando sospetti e interrogativi.

 

Per questi motivi la maggior parte dei consumatori considera l’accostamento tra l’uovo e la bomboletta di Eggy inaccettabile. Da qui i giudizi negativi e le accuse di cibo spazzatura rivolti da molti lettori nei loro post senza addurre motivi plausibili. Di diversa natura sono invece le riflessioni sull’effettiva utilità del prodotto e sull’impatto ambientale del packaging.

Mozzarella blu: nuovo caso a Milano

di Antonella Giordano

E’ di nuovo allarme mozzarella blu: nella mensa di una scuola di Milano è stata trovata una mozzarella con una macchia blu e la cosa ha destato subito preoccupazione tra i genitori dei bambini. In poche ore si sono rincorse voci di bambini che hanno accusato attacchi di dissenteria dopo aver mangiato le mozzarelle della mensa. Ma com’è andata realmente? Lo abbiamo chiesto a Milano Ristorazione, la società che gestisce le mense scolastiche per le scuole dell’infanzia, primarie, secondarie di primo grado e i nidi del Comune di Milano.

Si tratta di un caso di entità minima perché stiamo parlando di una mozzarella che ha presentato una macchiolina blu, sulle 83.300 che abbiamo consegnato quel giorno (2500 kg di mozzarelle). A prima vista sembra sia Pseudomonas fluorescens, un batterio non patogeno, quindi non pericoloso per l’uomo. Comunque il campione è stato inviato all’Istituto Zooprofilattico di Milano e aspettiamo i risultati delle analisi. Abbiamo rassicurato le commissioni mense e i genitori perché è tutto sotto controllo e bisogna stare tranquilli. In questi casi si sa come succede: la mozzarella è una, una signora dice che son 5, poi diventano 10 e si crea allarmismo”.

Da dove arrivano le mozzarelle?Si tratta di mozzarelle di latte italiano, di filiera corta, che arrivano da un fornitore di Torino”. Intanto dall’Istituto Zooprofilattico confermano di aver ricevuto il campione incriminato, ma non aggiungono altro prima delle dovute analisi.

In Italia troppe uova fuori legge

di VALENTINA CORVINO fonte: il salvagente.it

Se qualcuno vi dicesse che la frittata che avete mangiato ieri, o nei giorni scorsi, è illegale, ci credereste? Ebbene sì, c’è un’alta probabilità che le uova che avete utilizzato siano fuorilegge. È quello, per lo meno, che sostiene il settimanale dei consumatori il Salvagente nell’inchiesta. Partendo da un’equazione semplice: visto che nel nostro paese ci sono circa 18 milioni di galline allevate in gabbie che non rispettano la legge (su un totale di 48 milioni di animali), le loro uova o sono sparite nel nulla o finiscono nei nostri piatti “mascherate”.

Gabbie vietate

Ma andiamo con ordine. Dal 1° gennaio 2012, per effetto di una direttiva comunitaria (la 74/99) sono vietati su tutto il territorio comunitario gli allevamenti di galline ovaiole con gabbie “non modificate”. In Italia, invece, accanto ad aziende che a loro spese si sono adeguate alla nuova normativa, ce ne sono molte altre che continuano a mantenere i sistemi vietati con la compiacenza delle istituzioni che poco hanno fatto per dare seguito ai dettami dell’Europa, anche dopo una procedura di infrazione del 2003.

Grande confusione

Il risultato è che regna una gran confusione e il consumatore non è in grado di distinguere tra le uova che circolano con un codice vero e quelle che, invece, potrebbero avere un codice “taroccato”. La situazione che si è venuta a creare è paradossale: dal 1° gennaio 2012, infatti, il codice 3 contraddistingue le uova di galline allevate in gabbie arricchite. Per le altre non esiste un codice identificativo, né alcun tipo di imballaggio perché non possono essere commercializzate. Che fine fanno queste uova? Vengono distrutte? Difficile pensare che sia così. Che vengano immesse sul mercato con il codice 3 e che, dunque, finiscano per alimentare una frode in commercio è più che un sospetto, concludono dal Salvagente.

La filiera non vede e non parla

Ma è possibile che nessuno controlli e sanzioni? Avicoltori che allevano in sprezzo delle norme e centri di imballaggio che operano senza chiedersi da quali allevamenti provengano le uova che imballano ed etichettano? Per la verità le responsabilità non si fermano qui, perché anche la grande distribuzione organizzata dovrebbe almeno chiedersi la provenienza delle uova che espone sui suoi scaffali. Ma la filiera – in questo caso – non vede, non sente e non parla.

Rimpallo ministeriale

Il ministro delle Politiche agricole e forestali, Mario Catania, aveva fatto sapere che “sta provvedendo ad adeguare il regime sanzionatorio nei confronti delle aziende che al 1° gennaio 2012 non saranno in regola con le nuove disposizioni’ . In realtà non c’è bisogno di “adeguare il regime sanzionatorio”, basterebbe applicare le regole che ci sono. La Legge comunitaria 2008, infatti, individua proprio il ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali come soggetto competente al controllo per l’applicazione delle disposizioni citate, tramite l’Ispettorato centrale per il controllo della qualità dei prodotti agroalimentari (Icq). Con quali poteri? Qualora la partita controllata non sia ritenuta conforme, il servizio di Ispezione (l’Icqrf) ne può vietare la
commercializzazione. Da quello che ci risulta, però, nessuna partita fino a oggi è stata mai ritirata dal commercio.

L’inerzia delle istituzioni

La cosa più sconcertante, secondo il Salvagente, è proprio l’inerzia delle istituzioni. Se il ministero della Salute, seppur tardivamente, ha disposto un censimento degli allevamenti in regola, dalle Politiche agricole le prese di posizione sono ancora troppo deboli ma, soprattutto, ferme a un decreto ministeriale del 2011 adottato, tra l’altro, contro la volontà del ministero della Salute. E comunque destinato a non risolvere la questione.

Adesione volontaria

Il decreto, infatti, ha come oggetto le procedure per la presentazione di “istanze di adesione volontaria al programma di adeguamento degli impianti di allevamento delle galline ovaiole alle norme per il benessere animale mediante l’introduzione di nuove gabbie”. Istanze che saranno poi inserite in un elenco nazionale “da istituire” presso il ministero con articolazione regionale, e in base a cui potrà essere concesso l’accesso a programmi di sviluppo rurale e ad altri strumenti di finanziamento. La procedura di acquisizione on line di queste istanze presentate dalle aziende interessate, attiva dal 30 settembre 2011, è scaduta il 31 ottobre 2011, ma è stata ovviamente prorogata al 31 dicembre 2011.

13 anni di ritardi

È possibile che dopo 13 anni stiamo ancora cercando di trasformare un adempimento obbligatorio in un’adesione volontaria? È fuori dubbio che il passaggio da un sistema all’altro, da gabbie convenzionali a gabbie “modificate”, richieda investimenti onerosi per le aziende zootecniche, ma è altrettanto vero che 13 anni sono un tempo sufficientemente lungo per un passaggio morbido verso il nuovo sistema di allevamento. Basti pensare che la Germania si è messa in regola nel 2009 e lo ha fatto in soli 9 mesi e la Svizzera dal 1980 ha bandito le gabbie di batteria. In Italia, invece, le istituzioni sono in balia di una lobby – questa volta degli avicoltori – e a pagare le conseguenze sono, ancora una volta, i consumatori. E gli allevatori che hanno investito per tempo per adeguarsi alle legge e devono competere con i colleghi che se ne sono infischiati.

Carne separata meccanicamente: ciò che è definibile come carne

da Aduc

“La salsiccia è il cibo degli dei”, diceva il poeta romantico tedesco Jean-Paul, che subito aggiungeva: “poiché solo Dio sa cosa contiene”.
In Usa, nelle ultime settimane il termine “pink slime” ha creato un grande scompiglio e ha buone probabilità d’essere incoronato parola tabù dell’anno. Pink slime, o poltiglia rosacea, deve la sua recente popolarità a un famoso cuoco televisivo britannico, Jamie Oliver, che nella sua trasmissione Jamie Oliver’s Food Revolution ha mostrato quello che l’industria statunitense propina come carne. Con l’ausilio di un’asciugatrice e di detergenti domestici Oliver ha illustrato al pubblico sbalordito come si ottiene un ingrediente aggiuntivo alla carne macinata. Ufficialmente si usa un eufemismo, si parla di “carne bovina magra finemente strutturata” per suggerire l’idea di una particolare carne, pregiata e povera di calorie. Povera di calorie, può anche darsi; pregiata, certamente no. La materia prima sono i residui di carne e di grassi dopo la macellazione, gli stessi utilizzati dall’industria alimentare per cani e gatti. Una centrifuga provvede a separare il grasso dalla carne, e la poltiglia ottenuta è trattata con ammoniaca diluita nell’acqua a scopo igienico, ossia per uccidere eventuali germi.

In Usa non c’è obbligo di specifica etichettatura per quel tipo di ingredienti, e le stime parlano di un 50%-70% di carne macinata prodotta in quel modo. Dopo la repentina diffusione in Internet della trasmissione di Jamie Oliver, le precisazioni dell’industria della carne in Usa sono cadute nel vuoto. La blogger Bettina Siegel ha lanciato una petizione in Rete contro l’uso di pink slime nelle mense scolastiche, sottoscritta in breve tempo da 250.000 persone. Quando poi il tema è stato ripreso dall’emittente televisiva ABC, corredato dalle immagini ripugnanti della poltiglia, i produttori si sono dovuti arrendere. Una catena dopo l’altra di supermercati è stata costretta a sbarazzarsi della carne “incriminata”; McDonald’s, che ha dato prova di buon fiuto, ha informato di avervi rinunciato fin dall’estate scorsa; Burger King e Taco Bell hanno seguito l’esempio; il drastico crollo della domanda ha costretto l’azienda AFA Foods, che lavora 225 milioni di chili di carne all’anno, a depositare istanza di fallimento e il suo collega texano, Beef Inc, ha chiuso tre dei suoi quattro stabilimenti.
La situazione nell’Ue Da noi la lavorazione degli scarti della macellazione è un fatto abituale. Anche qui si usano i resti come in Usa, ma con una differenza: in tutta l’Ue è vietato disinfettare la carne con sostanze chimiche. Il procedimento definito “carne separata meccanicamente” è stato sottoposto a critica durante la crisi della Bse. Attraverso lo sminuzzamento degli ossi e l’alta pressione per amalgamare la massa osso-carne, non si può escludere che tessuto nervoso, tendini e scarti ossei, così come il midollo della spina dorsale, non entrino nel prodotto finito. E’ un guaio poiché sono ritenuti portatori della Bse e all’origine della malattia di Creutzfeld Jakob. Ecco perché nel 2001 sono entrati in vigore divieti particolari per il trattamento della carne bovina. Nel frattempo le norme si sono allentate. Finora solo la Svezia e la Finlandia sono classificate come esenti da Bse; da maggio 2012 lo sarà anche l’Austria. Ciò vuol dire che questi tre Paesi possono separare meccanicamente la carne bovina ed esportarla. Per polli, maiali, pecora, capra e volatili il divieto non c’è mai stato. In questo periodo la Commissione Europea sta preparando una legge alimentare più severa. Da dicembre 2011 è in vigore un nuovo obbligo di etichettatura, che però sarà vincolante solo fra tre e cinque anni. Esso contempla tra l’altro l’indicazione obbligatoria del luogo di provenienza per tutta la carne (finora valeva solo per quella bovina) e scritte sulle confezioni di una certa grandezza. E’ invece ancora in fase di studio una definizione univoca di carne separata meccanicamente.
(tratto da un articolo di Eva Steindorfer per Die Presse del 07-04-2012. Traduzione di Rosa a Marca)

Per Pasqua scarsa disponibilità di uova fresche

da Aduc

Molti Stati dell’Unione Europea hanno ignorato il divieto scattato all’inizio dell’anno d’allevare le galline ovaiole in gabbie di batteria. La conseguenza? Centinaia di milioni di uova non possono essere vendute come fresche, e in Germania dell’est c’è già la corsa all’accaparramento.
Con la Pasqua, s’avvicinano i giorni tradizionalmente più ricchi di uova. Però quest’anno in alcune zone si rischia la penuria, tanto che i produttori parlano di impasse e nella Germania orientale alcuni rivenditori impongono un limite pro cliente. La temuta scarsità dipende dalla norma Ue che vieta l’allevamento intensivo delle galline ovaiole. Se in Germania il divieto è in applicazione da oltre due anni, altri Paesi se la sono presa comoda. Secondo la società europea dei produttori (Epega), molti Stati membri non hanno ancora recepito nella propria legislazione il provvedimento comunitario deciso dodici anni fa. Un’occhiata ai dati statistici rivela che, nel 2011, in Olanda il 40% delle galline ovaiole era ancora tenuto in gabbie convenzionali; in Polonia il 70%; in Spagna l’80% e in Grecia il 90%.

Ecco perché Epega valuta che le uova di oltre 100 milioni di ovaiole allevate nell’Ue non possano essere vendute come fresche. In Germania numerosi produttori alimentari hanno da tempo rinunciato a utilizzare uova di galline tenute in batteria, e lo stesso vale per i commercianti. Alcune aziende le adoperano solo per produrre pasta e biscotti. Ora l’industria di trasformazione incontra “grossi problemi a consegnare la merce richiesta”, spiega il presidente di Epega, Caspar von der Crone: le uova fresche costano già il doppio dell’anno scorso, e il prezzo è destinato a salire ancora e non solo in Germania. Per esempio, i prezzi alti in Cechia hanno dirottato un flusso di clienti nei mercati alimentari della Germania orientale: nel loro Paese un uovo costa anche l’equivalente di 25 centesimi, mentre in Germania una confezione da dieci viene venduta a 1,09 euro. In prossimità del confine si sono verificati episodi di vera e propria incetta, così alcuni negozi hanno imposto un tot a cliente.
(articolo di Jan Grossarth e Tino Kotowski per Frankfurter Allgemeine Zeitung del 18.03.2012. Traduzione di Rosa a Marca)

Uova da spruzzare

da Aduc – di Primo Mastrantoni

 
Non credevamo ai nostri occhi. Nel consueto giro settimanale di controllo dei supermercati abbiamo trovato le uova in bombolette. 6 uova intere sbattute, contenute nelle classiche confezioni spray, pastorizzate, addizionate di anidride carbonica e del conservante sorbato di potassio. Eravamo rimasti alle uova in polvere (si vede che passa il tempo) ma questa delle uova da spruzzare non ce l’aspettavamo. Che dire? Che la praticita’ d’uso e’ la caratteristica di questo prodotto: basta spruzzare sulla padella le uova-spray e si ottiene una frittata. Elementi da considerare? Il prezzo, di 3,5 euro a fronte di 1,25 euro delle tradizionali confezioni da 6 uova; il sorbato di potassio che puo’ indurre reazioni di ipersensibilita’ e la confezione (la bomboletta) che va riciclata (si spera).