“Te la faccio pagare”: è labile il confine tra “reato” e “realtà dei fatti”

La frase “te la faccio pagare” che spesso pronunciamo rivolgendoci a qualcuno è sinonimo di una velata intimidazione pertanto bisogna prestare attenzione al contesto ed alle modalità d’uso. La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che l’espressione è un vero e proprio reato di minaccia ma, per stabilire quali rischi si corrono, bisogna contestualizzare il fatto. Se il riferimento si lega alla volontà di ricorrere al giudice non scatta l’ipotesi di reato poiché la frase incriminata implica l’esercizio di un diritto.

Ad esempio un dipendente che, di fronte alla negazione delle ferie da parte del datore di lavoro, gli dice “te la faccio pagare, avrai a che fare con i miei avvocati” non sta commettendo un’intimidazione, ma sta avvalendosi di un suo preciso diritto. Affinché scatti il reato è necessario che ci sia una concreta minaccia della persona offesa, ad esempio, quando qualcuno, nel dire “te la faccio pagare” ha un bastone in mano oppure fa chiaramente intendere il ricorso ad azioni violente. A volte basta anche un dito puntato contro per far intuire che le proprie intenzioni non siano del tutto lecite. Nel reato di minaccia quindi bisogna considerare l’elemento essenziale rappresentato dalla limitazione della libertà psichica: la creazione di un potenziale pericolo per il destinatario della frase fa infatti scattare l’ipotesi di reato.

Umberto Buzzoni
Direttore Responsabile

 

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