Il cibo ci costa oltre 6.000 euro l’anno. Le città più care

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Secondo l’Istat, nel 2012 ogni famiglia per mangiare ha speso complessivamente in un mese un quarto del budget mensile complessivo: -2,8% rispetto all’anno precedente. E ora, lasciate ormai alle spalle le vacanze, si torna alla routine quotidiana fatta anche dalla spesa familiare. Ma dove conviene di più riempire il carrello? Ci aiuta a capirlo la ventiquattresima edizione dell’inchiesta annuale sui supermercati svolta da Altroconsumo che ha visitato 907 punti vendita dislocati in 68 città italiane rilevando un milione di prezzi. L’indice di convenienza è stato calcolato sui prezzi di un paniere di 500 prodotti di marca, costruito su 105 tipologie merceologiche che nell’insieme rappresentano, secondo l’indagine Istat sull’inflazione, la spesa comunemente acquistata dalle famiglie italiane. Il paniere include acqua naturale, bibite, detersivi, pasta, biscotti, articoli per la manutenzione e pulizia della casa, per la cura personale, prodotti alimentari freschi (frutta, verdura, carne, formaggi e salumi da banco). Ne emerge una vera e propria mappa della convenienza.

Sempre più poveri: gli italiani tagliano sulla qualià del cibo

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Descrive un’Italia sempre più povera e stretta nella morsa della crisi l’indagine dell’Istat pubblicata oggi sui consumi delle famiglie. Nel 2012 la spesa media mensile per nucleo familiare, in valori correnti, è scesa a 2.419 euro, in ribasso del 2,8% rispetto al 2011. E se la spesa alimentare resta stabile (passa da 477 a 468 euro), l’istituto di statistica segnala ciò che avviene grazie alle “strategie di contenimento della spesa messe in atto dalle famiglie per fronteggiare l’aumento dei prezzi”. Crescono, infatti, le percentuali di chi ha ridotto la qualità e/o la quantità dei generi alimentari acquistati (dal 53,6% del 2011 al 62,3% del 2012) e di coloro che si rivolgono all’hard discount (dal 10,5% al 12,3%). Insomma, per mangiare gli italiani rinunciano ai prodotti di “prima qualità”.

Precipitano abbigliamento e arredi

Va giù, di molto, anche la spesa non alimentare, che diminuisce del 3% e scende nuovamente sotto i 2.000 euro mensili. Precipitano le spese per abbigliamento e calzature (-10,3%), per arredamenti, elettrodomestici e servizi per la casa (-8,7%) e quelle per tempo libero e cultura (-5,4%), a fronte però di un aumento del 3,9% delle spese per combustibili ed energia. Consumi, questi ultimi, necessari, e i cui prezzi sono aumentati nell’ultimo anno.

Al Sud un quarto delle spese è per il cibo

In totale, segnala l’Istat, sale rispetto al 2011, la quota di spesa alimentare (dal 19,2% al 19,4%) rispetto al totale delle spese sostenute. Non è una buona notizia: questo vuol dire che gli italiani rinunciano sempre di più a tutto ciò che è superfluo, e si limitano all’indispensabile. L’aumento più consistente si registra nelle regioni centrali (dal 18,4% al 19,3%), ma è nel Mezzogiorno che, ancora una volta, si osservano i valori più elevati (25,3%).

I più ricchi a Bolzano, i più poveri in Sicilia

Il Trentino-Alto Adige, in particolare la provincia di Bolzano, è la regione con la spesa media mensile più elevata (2.919 euro), seguono Lombardia (2.866 euro) e Veneto (2.835 euro). Fanalino di coda, anche nel 2012, la Sicilia, con una spesa media mensile di 1.628 euro, di circa 1.300 euro inferiore a quella del Trentino-AltoAdige.

Non sappiamo piu’ da dove viene il nostro cibo

L’emergenza mondiale di una alimentazione “senza glutine” e’, per Robyn O’Brien, autrice del libro “The Unhealthy Truth”sull’industria alimentare, e’ un cattivo segnale.

D. Come valuta l’emergenza mondiale di una alimentazione “senza glutine”
R.
 E’ un cattivo segnale, sintomatico di un problema generale. In Usa, dove le allergie alimentari sono molto diffuse, il 18% della popolazione acquista prodotti “senza glutine”. Si tratta di persone ciliache, ma sono una minoranza (1% della popolazione). Gli altri sono intolleranti, digeriscono male il glutine oppure vogliono semplicemente nutrirsi in modo piu’ sano.
D. Lei e’ un’analista finanziaria, ed e’ l’emblema della lotta contro la cattiva alimentazione sostenuta da Erin Brokovitch. Perche’?
R.
 Uno dei miei figli soffre di allergia alimentare. Ho scoperto che negli Usa, a partire dal 1994, alcune modificazioni genetiche sono state apportate nei cibi, modifiche che non sono state accettate in Europa. Utilizzando il mio approccio di analisi finanziaria, ho cercato quali decisioni erano state prese per massimizzare il guadagno ed ho scoperto a quali derive questo abbia portato.
D. Cosa ha scoperto?
R
. Le aggiunte di ingredienti e additivi chimici, il dopaggio degli animali perche’ ingrassasseno rapidamente, l’uso massivo di pesticidi… Tutto questo distrugge la nostra barriera digestiva, che e’ a garanzia della nostra immunita’. Qualche scienziato non conosce veramente gli impatti di tali cambiamenti, ma noi siamo diventati piu’ vulnerabili. Delle stime inquietanti sono state pubblicate: il 41% degli americani dovrebbe avere un cancro durante la propria vita, la meta’ uomini e un terzo donne. Aumentano le malattie auto-immuni, legate ad un livello alto di infiammazione del corpo. I nostri sistemi immunitari lottano enormemente a causa dell’alimentazione che ci viene proposta.
D. Quali sono i progressi?
R.
 Le mentalita’ evolvono. Dopo la pubblicazione del libro, e la partecipazione a delle conferenze come quelle organizzate da TED (organizzazione no-profit la cui finalita’ e’ la diffusione di idee e approcci nuovi), alcune societa’ mi hanno contattato, ed io ho creato Allergykids, una societa’ di consulenza. Noi siamo disconnessi dalle nostre radici, soprattutto in Usa. Non sappiamo piu’ da dove viene il cibo. L’industria agroalimentare ha preso una cattiva direzione. Occorre reagire rapidamente.

Qui una conferenza di Robyn O’Brien

(intervista di Laure Belot, pubblicata sul quotidiano Le Monde del 24/02/2013)

Ridurre il sale nei cibi è salutare e il gusto non ci rimette

da Swissinfo

Si può diminuire la quantità di sale senza compromettere qualità e sapore dei cibi? Si può, secondo una ricerca della Scuola universitaria professionale di scienze agronomiche, forestali e alimentari di Zollikofen (Svizzera). Lo studio è stato fatto in seguito alla campagna nazionale per convincere la popolazione a ridurre il consumo di sale, che incide sulla pressione alta con effetti negativi per la circolazione del sangue e il cuore. Va detto che in Svizzera il consumo medio giornaliero è di 9,1 grammi -molto al di sopra dei 5 gr raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
I ricercatori hanno perciò esaminato varie opzioni per abbassare in modo significativo la quantità di cloruro di sodio in alcuni tipi di alimenti, e hanno concluso che è possibile centrare l’obiettivo senza pregiudicare né la qualità né la conservazione dei prodotti. La ricerca ha riguardato gli alimenti preparati come pane, prodotti a base di carne, cibi pronti, e la loro ricetta è stata rielaborata con meno sale.
Il pane è risultato il prodotto che più si presta alla diminuzione. Ed essendo basilare per molta gente, intervenire su quell’alimento ha indubbiamente un effetto positivo. Il sale non gli dà solo sapore, ma ne favorisce anche la cottura giacché modifica la struttura della pasta e incide su consistenza e colore. Poiché le dosi dei panettieri svizzeri oscillano tra l’1,2% e il 2,3% del prodotto finale, il margine d’azione è piuttosto ampio.
In quanto ai prodotti di carne essiccata, la ricercatrice Claudine Allemann fa notare che sono sicuramente molto salati, ma l’impatto è minore perché il loro consumo non è così frequente.
Il sale è un ingrediente a basso costo, utilizzato per rendere più saporiti i cibi, eppure lo studio indica che si possono operare delle riduzioni modeste senza alterare il gusto. Per esempio, i test hanno mostrato che la maggior parte dei partecipanti hanno apprezzato i cracker al frumento con il 15% di sale in meno.

Ora spetterebbe al mercato. Tre grandi aziende alimentari -Nestlé, Migros, Coop- si sono già impegnate in questo senso. La Coop dice che il suo pane non contiene più dell’1,5% di cloruro di sodio; la Migros ha cominciato a limitarlo già nel 2009 e l’anno scorso ha deciso d’intervenire su 171 prodotti; in quanto alla Nestlé, annuncia che nei prossimi cinque anni lo ridurrà del 10% nei suoi cibi preparati. Per le piccole aziende, come le panetterie famigliari, è una cosa più complicata e onerosa: rielaborare il prodotto costa, e se la quantità di sale è stampata sulla confezione, bisogna cambiare l’imballaggio.

Tradizioni gastronomiche
Alcune sono dure a morire. Prendiamo il formaggio Gruyère, il più consumato dopo la mozzarella. “Un prodotto come quello non può essere cambiato”, sostiene categoricamente Philippe Bardet, che rappresenta 175 produttori di questa specialità casearia. E’ vero che, con un tasso tra l’1,2% e l’1,7% sul prodotto finito, il Gruyère è il formaggio svizzero più salato (anche se meno dei formaggi importati Roquefort e Feta). Ma Bardet sostiene che bisogna tener conto della DOP (denominazione di origine protetta) e che la ricetta dev’essere salvaguardata. Il sale è un fattore di conservazione e impedisce al formaggio di guastarsi durante il processo di maturazione, aggiunge. Dopo essere state pressate per 20 ore, le forme vengono messe in un bagno salato al 20%, poi maturano in cantina e via via vengono lavate con acqua salata che mantiene sana la crosta. Insomma, la procedura di conformità alla ricetta del Gruyère è contenuta in un regolamento di ben 22 pagine. Il discorso vale anche per altri formaggi, naturalmente. Ma Claudine Allemann è convinta che si possa intervenire, soprattutto nelle varietà con una salinità superiore alla media.
Dalla ricerca si evince che c’è un potenziale di riduzione di sale molto esteso, possibile da sfruttare. “Ciò che conta è la somma degli sforzi individuali”, conclude la ricercatrice.