A cinque anni dalla laurea il 90% trova il lavoro

di Umberto Buzzoni

Dal XVII rapporto di Almalaurea emerge l’importanza di un titolo accademico dato che rispetto a chi non ha lo conseguito, i laureati hanno diversi vantaggi in ambito lavorativo in particolare in periodi di crisi.

In questa analisi sono state considerate le condizioni occupazionali di 490 mila laureati di 65 università italiane ed il tasso di occupazione a distanza di un anno dal conseguimento del titolo si differenzia: con un 66% per i laureati triennali, 70% per i laureati magistrali biennali e 49% per i magistrali a ciclo unico (architettura, medicina, veterinaria, etc).

A cinque anni dal conseguimento del titolo 9 laureati su dieci lavorano, anche se la percentuale è diminuita rispetto al passato e nel lungo periodo aumenta anche la stabilità del lavoro con un 73% dei laureati triennali, circa 78% dei magistrali a ciclo unico e 70% per i magistrali biennali.

I dati relativi alle retribuzioni a un anno registrano un lieve aumento e superano i 1.000 euro netti mensili: 1.013 per i laureati triennali, 1.065 per i laureati magistrali biennali e 1.024 per i magistrali a ciclo unico.

Effetto Crisi: Solo un’impresa italiana su tre paga a scadenza

Dal rapporto sui pagamenti di Cribis D&B (gruppo Crif) è emerso che solo il 36,3% delle imprese italiane è puntuale nei pagamenti e ciò rappresenta il peggior risultato degli ultimi cinque anni (-4,6% rispetto ad un anno fa e -18% rispetto al 2012).

Il sistema dei pagamenti commerciali delle imprese italiane è cambiato radicalmente con il perdurare della crisi e ad esserne maggiormente interessato è il commercio al dettaglio in cui solo un quarto (25,4%) delle imprese del settore ha rispettato i termini di pagamento alla scadenza, mentre un altro quarto (24,6%) ha saldato le fatture con oltre il mese di ritardo. In termini geografici in Emilia-Romagna troviamo le imprese più virtuose (46,6% puntuali) ed in coda la Sicilia con il 18,9%. Il Nord-Est è la macro-area più affidabile, con il 45,6% di pagamenti regolari; nel Nord-Ovest il 43% delle imprese è puntuale, mentre nel Centro solo il 31,5% paga a scadenza e nel Sud il 22,4%, con il 27,3% di ritardi significativi.ù

Il 48% delle imprese italiane paga con 30 giorni al massimo di ritardo, stabile al 15,7% chi salda le fatture oltre un mese dopo la scadenza, un valore che però è quasi tre volte (+185,5%) il dato di fine 2010 e non si prevedono a breve inversioni di rotta.

Il paragone con i dati di fine 2010 è sintomatico delle difficoltà che stanno vivendo 1,2 milioni di imprese commerciali, pari a circa un quinto delle aziende del Paese: la percentuale di ritardi gravi è cresciuta del 232,4%, dato che rischia di condizionare l’intero sistema economico nazionale.

I Giovani che saranno i Poveri del futuro: il 65% in pensione a meno di mille euro

di Umberto Buzzoni

Il Censis, insieme alla Fondazione Generali, ha avviato una ricerca sul Welfare di domani e le stime sono allarmanti. Il 65% dei giovani occupati dipendenti con età compresa tra i 25 e i 34 anni di oggi potrà contare su una pensione sotto i mille euro anche considerando gli avanzamenti di carriera medi e l’abbassamento dei tassi di sostituzione.

Questa previsione pero’ riguarda i più fortunati cioè i 3,4 milioni di giovani che hanno un contratto standard restano poi gli 890.000 giovani (tra i 25 e 34 anni) autonomi o con contratti di collaborazione e i quasi 2,3 milioni di Neet (non studiano e non lavorano). I giovani precari di oggi rischiano di diventare gli anziani poveri di domani soprattutto se si pensa che i giovani tra 18 e 34 anni, definiti millenials, vedono la loro posizione lavorativa e retributiva cozzare completamente con il nuovo sistema pensionistico contributivo.

Nel sondaggio si legge che “Il 53% di loro pensa che la loro pensione arriverà al massimo al 50% del reddito da lavoro” ed in pratica la loro pensione dipenderà dalla capacità che avranno di versare contributi presto e con continuità. Come dichiara il Censis “Ma il 61% dei millennials ha avuto finora una contribuzione pensionistica intermittente, perché sono rimasti spesso senza lavoro o perché hanno lavorato in nero. Per avere pensioni migliori, l’unica soluzione è lavorare fino ad età avanzata, allo sfinimento. Ma il mercato del lavoro lo consentirà? Intanto l’occupazione dei giovani è crollata. Siamo passati dal 69,8% di giovani di 25-34 anni occupati nel 2004, pari a 6 milioni, al 59,1% nel 2014 (primi tre trimestri), pari a 4,2 milioni. In dieci anni, ci sono stati 1,8 milioni di occupati in meno tra i giovani, con un crollo di 10,7 punti percentuali. Una perdita di occupazione giovanile che, tradotta in costo sociale, è stata pari a 120 miliardi di euro, cioè un valore pari al Pil di tre Paesi europei come Lussemburgo, Croazia e Lituania mesi insieme”.

Da questa ricerca emerge che i giovanni non hanno paura di invecchiare ma di perdere l’autonomia: il 43% degli italiani giovani e adulti teme l’insorgere di malattie e il 41% la non autosufficienza. La crisi ha già comportato delle conseguenze in questo senso con 120.000 persone non autosufficienti che hanno dovuto rinunciare alla badante e 2,5 milioni di persone che vivono in abitazioni non adeguate alle loro condizioni di ridotta mobilità e che avrebbero bisogno di interventi per essere trasformate.

Lavoro: il lungo cammino verso la parità di genere (e retribuzione)

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Il traguardo verso il superamento delle disuguaglianze lavorative tra uomo e donna potrebbe essere dislocato al 2095, con ripercussioni non solo sulla giustizia sociale, ma anche sulla crescita economica.

Questi gli esiti ancora poco rassicuranti del Gender Gap 2014, il rapporto del World Economic Forum, – di cui è fondatore e presidente Klaus Schwab – , per la rilevazione dell’indice di disparità di genere nella partecipazione alla forza lavoro, nella remunerazione a parità di carriera, nella presenza nella classe dirigente e nella rappresentanza legislativa.

Sui 142 Paesi in esame, hanno superato per oltre l’80% le differenze lavorative solo 14 Stati, tra i quali la Norvegia, gli USA, la Danimarca, l’Islanda, il Burundi, il Malawi, la Moldavia; mentre si è classificata 114a l’Italia, con solo il 57% della disparità recuperata ed una posizione in caduta dalle precedenti rilevazioni del 2013, quando era 97a su 136 nazioni.

E, del resto, le statistiche nazionali confermano la contenuta partecipazione delle connazionali alla vita economica ed al mercato del lavoro, tanto per la contrazione occupazionale quanto per l’incrementabile sostegno alla maternità, che, – in assenza di strutture fuori dall’assistenza familiare – , induce all’abbandono lavorativo.

Il recente rapporto di Bankitalia, infatti, ha rilevato che una madre su cinque, – tanto più sotto i 24 anni e con bassa istruzione – , lascia il proprio impiego ad un anno e mezzo dalla nascita dei figli e che il tasso di occupazione femminile è inversamente proporzionale al numero dei bambini.

Tuttavia segnali positivi provengono dalla politica, designata ad interpretare in norme le istanze della società e recentemente aperta alla maggiore inclusione femminile, come ne attesta l’aumento in Parlamento ed al Governo, con guadagno di posizioni dalla 44a del 2013 alla 37a del 2014 e con l’auspicio, dichiarato dal Presidente Schwab, di adeguate risposte da donne a donne.

4 novembre 2014

Petula Brafa

Fondi UE 2014-2020: lotta alla burocrazia e piani di sviluppo nazionale

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È stato sottoscritto a Bruxelles lo scorso 29 ottobre l’Accordo di Partenariato sui fondi strutturali 2014-2020, con assegnazione all’Italia di 42 miliardi di euro, dei quali 22,2 da destinarsi alle regioni meno sviluppate (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), 7,6 alle più avanzate (Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana, Umbria, Veneto e province di Trento e Bolzano), 1,3 alle regioni in transizione (Abruzzo, Molise e Sardegna), 1,1 alla Cooperazione territoriale europea, 10,4 per i programmi per lo sviluppo rurale ed infine 567,5 milioni di euro per Garanzia Giovani europea.

In occasione della formalizzazione, la Commissione ha richiesto la presentazione non solo delle procedure per la attuazione dei progetti da finanziare, ma soprattutto dei programmi di rafforzamento amministrativo (PRA), quale strumento di superamento agli ostacoli burocratici e condizione alla automatica erogazione dei fondi.

Nel ciclo di programmazione nazionale 2007-2013, infatti, la farraginosità burocratica e l’inefficienza amministrativa hanno rallentato il cammino dei progetti verso l’attuazione, sommando le lungaggini ai ritardi strutturali ed il mancato impiego al rischio di restituzione delle somme.

E proprio il basso tasso di avanzamento finanziario, ovvero il rapporto tra la spesa operata e certificata, ha evidenziato la necessità di un migliore adeguamento programmatico soprattutto al Sud.

«Le Regioni del Sud non sono le peggiori, ma sono solo più fragili, per questo esistono politiche di sviluppo orientate proprio per loro», – ha dichiarato a Lettera43.it  Lucio Paderi della Direzione generale europea Politica regionale, segnalando la difficoltà di impiego di risorse più ingenti nel Meridione.

“Su queste Regioni vengono indirizzati molti più soldi che al Nord, ma le misure sono più stringenti” – ha precisato – “e il combinato crea problemi anche solo nel presentare i progetti per ottenere i fondi».

Nel Sud, inoltre, la minore capacità di dinamismo e di innovazione amplifica le difficoltà strutturali, imbattendosi in una classe imprenditoriale frenata dal limitato accesso al credito e dalla miope rappresentanza politica; e nel corto circuito culturale tra l’utopia del posto fisso e l’urgenza lavorativa fino all’emigrazione.

E, qualora non bastasse, a violare le aspirazioni di crescita ecco l’ombra della illegalità, tanto più pervadente nelle regioni ritardatarie nella consegna dei programmi e tale da indurre la Commissione ad esigere dalle amministrazioni un programma di misure anticorruzione ed antifrode.

Infine, la babelica articolazione di livelli tra direzioni e di criteri tra uffici, piuttosto dell’auspicabile contenimento di stazioni appaltanti, non può ignorare i vincoli di spesa delle amministrazioni: infatti, a fronte del 75% di cofinanziamento europeo, il 25% dovrà essere stanziato a livello nazionale, con il rischio del singolo Comune di limitare la partecipazione con proprie risorse, in obbligo al Patto di Stabilità.

La questione è già nota agli addetti ai lavori: dal 2011 l’esecuzione dei fondi UE è passata dal 30% al 60% e proprio lo scorporamento dal Patto di Stabilità potrebbe ridurre i ritardi sul territorio ed incrementare la soglia di attuazione.

Fonte: lettera 43.it

3 novembre 2014

Petula Brafa

BENI CULTURALI: AGRICOLTURA IN CAMPO PER IL RECUPERO DEI SITI IN ABBANDONO

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Diffuso dall’attenzione dei media e dalla progressiva sensibilizzazione popolare, il ricorrente appello alla valorizzazione del patrimonio storico nazionale incontra anche l’interesse degli operatori del settore primario.

Con una lettera aperta al Ministro dei Beni e delle Attività Culturali Dario Franceschini, la Confederazione Italiana Agricoltori e l’Associazione per gli agriturismo “Turismo Verde” hanno proposto le rispettive candidature partecipative al recupero dei siti archeologici, storici ed artistici in abbandono, attraverso la vasta rete di aziende e strutture ricettive autorizzate sul territorio.

Tra le attività connesse proprie dell’impresa agricola multifunzionale” , – si legge nel testo – , “individuiamo la possibilità di gestire centinaia di beni archeologici e culturali anche al di fuori della disponibilità dei terreni dell’azienda. Questo, attraverso una specifica convenzione con il ministero. Siamo da sempre sensibili alla salvaguardia delle risorse ambientali e culturali oltre ad un uso sostenibile del suolo”.

Anche se siamo stati martoriati dalla crisi, messi in ginocchio dalle bizzarrie climatiche e … additati come il più grezzo tra gli strati sociali” , – ha dichiarato altresì Enrico Rabazzi, presidente provinciale della CIA di Grosseto – , “gli imprenditori agricoli non si arrendono, alzano la testa e si propongono come custodi dei beni archeologici del nostro paese”.

Oltre la tutela, il progetto ambisce alla riqualificazione di aree caratterizzate da manufatti antichi e reperti, prossime alle proprietà aziendali e soggette a carenza manutentiva o a rischio di incuria e vandalismo, con una efficace proiezione economica verso il rilancio turistico, – tra storia, natura, ambiente, coltivazioni di qualità e prodotti enogastronomici – , e l’attivazione dell’indotto lavorativo connesso.

Del resto, in materia di recupero artistico, l’intervento privato, complici l’impegno economico ed il vantaggio commerciale del riflesso d’immagine,  ha spesso avuto ragione sulle lungaggini burocratiche e sui bizantinismi del sistema pubblico di competenze, come attestano da un lato il successo dei grandi restauri, – il Colosseo a Roma, gli scavi ad Ercolano – , dall’altro il limbo di Pompei.

E, proprio nell’alveo di questi esiti, con il Decreto Legge 31 maggio 2014, n. 83 il MiBACT ha introdotto l’ “Art Bonus”, un sistema di incentivi fiscali in favore del mecenatismo, con credito d’imposta definito al 65%, detraibile in 3 anni e riconosciuto alle persone fisiche ed agli enti senza scopo di lucro nei limiti del 15% del reddito imponibile.

Gli agricoltori promettono il loro impegno e confidano di potere già raccogliere i primi riscontri dagli emendamenti al decreto “Sblocca Italia”, avviando frattanto la programmazione delle attività preliminari, a partire dal censimento dei beni culturali interessati dalla proposta di gestione affidata.

A tale riguardo, il Presidente della CIA di Benevento Raffaele Amore ha dichiarato il proposito di contattare i Sindaci dei Comuni sanniti per procedere alla mappatura dei siti archeologici suscettibili di valorizzazione.

Fonti: AGG, L’Espresso

30 ottobre 2014

Petula Brafa

Le imprese bocciano la riforma Fornero: il POSTO FISSO scende ai minimi storici

forneroda Adico – di Filippo Santelli

Una riforma invocata dall’Europa. Che ha acceso lo scontro tra sindacati e industriali. Una priorità assoluta per il governo Monti. Ma una legge, la riforma del lavoro firmata Elsa Fornero, che a un anno esatto dall’entrata in vigore sembra avere ben pochi effetti. C’è meno precariato, questo sì, nella forma di contratti a collaborazione o intermittenti. Ma solo una piccola parte è diventata occupazione stabile. E l’apprendistato, strategico per l’Italia delle piccole e medie imprese artigianali, resta ancora al palo.

L’evoluzione dei contratti.

La crisi incide, e non poco: non si crea occupazione per legge, ancora meno in tempi di recessione. La riforma però, con l’obiettivo di contrastare la “flessibilità cattiva”, l’utilizzo fraudolento di contratti precari, ha introdotto ulteriore rigidità in entrata. È questo il punto su cui, fin dal primo giorno, gli imprenditori sono più critici. Delle 500 aziende intervistate da Gi Group sul tema, la metà sostiene che quando si tratta di assumere non sia cambiato nulla, un altro 40% che le cose siano più difficili e costose. Il decreto lavoro del ministro Giovannini, ora in discussione in Parlamento, ne prende atto: si accorcia lo stop forzato tra due contratti a tempo determinato, sparisce l’obbligo di inserire una causale al primo rinnovo, viene semplificato il ricorso al lavoro intermittente.

Una revisione che trova d’accordo anche i sindacati. Ma che rischia di tradire, avverte Bankitalia, uno degli obiettivi della riforma: incentivare le assunzioni a tempo indeterminato. Anche su questo punto però gli effetti della Legge 93 sono ambivalenti. La sua approvazione ha subito fatto crollare il numero di contratti atipici. Il monitoraggio ufficiale dell’Isfol segnala nel secondo semestre del 2012 una caduta del lavoro parasubordinato (dall’8,2% al 6,7% sul totale degli avviamenti), e di quello intermittente (dall’8,5% al 4,4%). “Tornati su livelli fisiologici”, secondo l’istituto, dopo essere stati a lungo usati come alternative low cost all’assunzione. Già negli ultimi tre mesi dell’anno però il numero di contratti a tempo determinato era tornato a crescere, del 3,7%. E tra gennaio e marzo le collaborazioni a progetto avviate hanno riguadagnato quota 200mila.

Assestamento o ritorno del precariato? Il sondaggio di Gi Group, aggiornato a giugno, sembra far propendere per la seconda ipotesi. Considerato l’intero primo anno di regime Fornero infatti l’incidenza degli atipici sul totale degli assunti è la stessa del periodo precedente. “All’inizio c’è stato un effetto deterrenza, la legge era severa”, spiega il giuslavorista Armando Tursi, professore all’Università Statale di Milano. “Poi le imprese sono rimaste alla finestra, hanno visto che alcuni vincoli venivano alleggeriti: è possibile che una parte sia tornata alle vecchie pratiche”.

Lavoro sempre più “determinato”.

Di certo, non sono aumentati i contratti a tempo indeterminato. Scesi anzi sui minimi storici, il 17% degli assunti. Meno di un’azienda su quattro, tra quelle sentite da Gi Group, ha stabilizzato un dipendente precario, sfruttando gli incentivi previsti. “Molti atipici sono stati assunti a tempo determinato, contrattini di qualche mese, molti non sono stati rinnovati, parte addirittura passati a collaborazioni più precarie, come la partita Iva”, dice il professore. Ma il fallimento più grave, sostiene, è quello dell’apprendistato, che sarebbe dovuto diventare la strada maestra per l’inserimento dei giovani. Dopo la riforma il suo utilizzo è addirittura diminuito, appena 60mila contratti firmati nel primo trimestre del 2013: “Per le aziende è ancora un contratto con troppi vincoli, specie dal punto di vista formativo. Senza contare che ogni Regione ha norme diverse”.