La “mozione di sfiducia” Cosa fare se non funziona.

 

Cosa s’intende per “mozione di sfiducia”? Spesso sentiamo questo termine durante le assemblee condominiali senza però capirne il significato. Una mozione di sfiducia è  un’azione portata avanti dai condomini per far venir meno il rapporto fiduciario esistente con l’amministratore.
Nel caso specifico quindi la richiesta di convocazione dell’assemblea straordinaria, per discutere della revoca dell’amministratore, nient’altro è che una mozione di sfiducia per ottenere la rimozione dall’incarico dell’attuale amministratore. Ciò è sempre possibile in quanto, ai sensi dell’art. 1129del Codice Civile, l’amministratore dura in carica un anno ma può essere revocato in ogni momento dell’assemblea. Il tutto con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti all’assemblea che rappresenti quanto meno la metà del valore millesimale dell’edificio.

Vale la pena soffermarsi su cosa può accadere se la “mozione di sfiducia” presentata non dovesse trovare riscontro. La risposta è molto semplice: non accade nulla, perché l’amministratore in carica continuerà a svolgere il proprio lavoro ed i condomini, a lui favorevoli e quelli contestatori, dovranno continuare a versare le quote e rispettare delibere e regolamento come sempre. Può anche accadere che la richiesta di revoca sia fondata su motivi talmente seri che i condomini proponenti insistano nel proseguire il loro intento. In tal caso la vicenda potrebbe avere degli strascichi giudiziari. In che modo? Ogni condomino potrebbe agire giudizialmente per ottenere la revoca in ragione di fondati sospetti di gravi irregolarità nella gestione del condominio. E’ chiaro che andando su questo piano la propria convinzione di “mala gestio” dovrà essere confermata da elementi di fatto inoppugnabili.
Direttore responsabile
Buzzoni Umberto

Manutenzione del lastrico e danni da infiltrazione: chi paga?

Urgono dei lavori in condominio per la manutenzione del lastrico comune. Si riunisce l’assemblea che sceglie tra i vari preventivi quello più conveniente. Capita però che, durante il periodo dei lavori, piove spesso e alcuni condomini cominciano a lamentarsi di fastidiosi danni da infiltrazione. Cosa fare per ottenere il dovuto risarcimento? La legge stabilisce che la responsabilità è a carico della ditta poiché “l’appaltatore si occupa dell’attività richiesta per raggiungere un risultato ottimale in piena autonomia, con propria organizzazione ed a proprio rischio, utilizzando mezzi adeguati e curando le modalità esecutive del lavoro stesso”. Ciò implica che l’appaltatore stesso sia da ritenersi responsabile dei danni derivati e terzi nell’ esecuzione dell’opera.

Un’altra considerazione riguarda il periodo in cui la manutenzione viene effettuata: se si lavora in autunno è maggiore la probabilità che piova più spesso rispetto al periodo estivo o primaverile. In questo caso la Cassazione sancisce che “non è  ragione sufficiente per muovere un addebito di colpa al committente, ove si consideri che l’adozione, da parte dell’appaltatore incaricato del rifacimento di un terrazzo condominiale, delle normali misure precauzionali, come la collocazione degli opportuni manti impermeabili, vale a prevenire gli effetti della pioggia, normalmente più copiosa in quel periodo, e quindi a neutralizzare la scelta del periodo di esecuzione del contratto”.

Può capitare però che anche il committente dei lavori, in questo caso il condominio stesso, possa avere delle responsabilità. La sentenza num. 2363 del 17 febbraio 2012 emessa dalla Cassazione chiarisce le idee “si riconoscano a carico del committente specifiche violazioni tra cui il tralasciare il compito di sorveglianza nella fase esecutiva nell’esercizio del potere, oppure quando l’evento dannoso sia stato causato dall’affidare il lavoro ad un’ impresa che palesemente difettava delle necessarie capacità tecniche ed organizzative per eseguirlo correttamente”.

Direttore responsabile
Buzzoni Umberto

Condominio e pollice verde…

Come comportarsi se il vostro vicino di casa ha il pollice verde ed ama adornare con le piante il pianerottolo? Il condomino in questione abita al piano terra ed una delle porte di ingresso del suo appartamento si affaccia sul cortile condominiale. L’inquilino abbellisce quello spazio con piante ornamentali, sedie e tavoli. I vicini infastiditi si recano in tribunale poiché, secondo loro, la norma violata è il primo comma dell’articolo 1102 del Codice Civile. Nello stesso si legge che: “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto”.

Che esito ha avuto la diatriba? Il condomino accusato dai suoi vicini ha vinto la causa. La sentenza (Cass. civ., sez. II, 9 febbraio 2011, n. 3188) infatti recita: “il potere del singolo condomino di servirsi della cosa comune incontra un duplice limite, consistente, l’uno, nel rispetto della destinazione del bene comune, che non può essere alterata dal singolo partecipante alla comunione e l’altro, nel divieto di frapporre impedimenti agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.” 

Pertanto “le allegazioni dei ricorrenti in ordine alle condotte ascrivibili al collocamento nella corte comune di vasi di piante, di panchine con sedie e tavoli in adiacenza dei muri di proprietà del resistente, non appaiono integrare gli estremi della violazione del principio di pari uso ricavabile dall’art. 1102 c.c., non apparendo in alcun modo pregiudizievoli rispetto ad un utilizzo della corte secondo la sua naturale destinazione di permanenza e transito al fine di accedere alle proprietà dei ricorrenti, non avendo gli stessi offerto alcuna prova o allegazione in ordine all’esistenza di un diritto di passaggio carraio sulla predetta area.” In sostanza è lecito il collocamento di sedie e piante nelle parti comuni da parte di un condomino se ciò non pregiudica il diritto degli altri!

Umberto Buzzoni
Direttore Responsabile

“Mi mandi a quel paese? Va bene, ma ti denuncio e mi risarcisci!”

Se suonate ripetutamente il campanello del vostro vicino per far cessare i rumori che provengono dal suo appartamento e, per tutta risposta ricevete un bel “vaffa”, potete denunciare l’accaduto. Infatti, secondo la Cassazione, il vostro vicino sta commettendo un reato, quello di d’ingiuria. Il caso specifico riguarda una condomina che, infastidita dal rumore proveniente dal piano superiore, che non consentiva al figlio piccolo di dormire, aveva suonato ripetutamente il campanello per protesta. Al che, la vicina, infuriatasi a sua volta per il gesto estremo, comincia offendere la controparte mandandola a quel paese. La vicenda finisce in tribunale dove i giudici, sentite le testimonianze, condannano la donna colpevole di ingiuria.

I giudici hanno ritenuto attendibile la parte lesa che aveva riferito di essere stata investita da frasi ingiuriose. Inoltre, l’inciviltà del linguaggio ed il ripetuto epiteto “vaff…” accompagnato da altre espressioni rudi, non è soltanto indice di cattiva educazione ma anche del disprezzo che si nutre nei confronti dell’interlocutore. Bussare alla porta di un vicino, anche se più volte, non è fatto che possa ritenersi ingiusto tanto da legittimare una reazione tanto scomposta. Ad una richiesta di silenzio è ingiusto reagire con frasi ingiuriose, perché corrisponde alle regole del vivere civile che un vicino, per ragioni particolari, possa bussare alla porta per chiedere di fare meno rumore. Quindi se vi trovate in una situazione simile cercate di essere cortesi: in caso contrario potreste risponderne in prima persona davanti ad un giudice ed essere condannati a risarcire i danni.

Umberto Buzzoni
Direttore Responsabile

Condominio: stop ai panni che gocciolano sui balconi altrui.

Se lo sgocciolio dei panni stesi diventa un peso insostenibile state tranquilli poiché la Corte di Cassazione si è recentemente pronunciata in merito a favore dei condomini che lamentano questo spiacevole inconveniente. Chi risiede ai piani inferiori è infatti condizionato dalle scelte dalle scelte dei condomini dei piani superiori che spesso, quando stendono i panni zuppi d’acqua, non badano alle esigenze altrui.

E’ successo a due casalinghe che, dopo liti furibonde, decidono di rivolgersi alla Corte Suprema per risolvere la questione. La Corte si pronuncia con la sentenza numero 14547 in cui si legge che: “due fili sostenuti da staffe di metallo non sono sufficienti a determinare servitù di stillicidio che consente lo sgocciolio dei panni sul piano sottostante”. Quindi state attenti a strizzare bene i vostri panni prima di stenderli ed a considerare anche il regolamento condominiale stesso che, in alcuni casi, per tutelare il decoro architettonico potrebbe imporre vincoli e limitazioni.

Smart working.

Lo smart working ovvero “lavoro agile” è la nuova strategia imprenditoriale da utilizzare con aziende che hanno dipendenti. Si tratta di una modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative recentemente introdotta dal Jobs Act nel 2017 in base a cui l’attività lavorativa può essere svolta in parte all’interno dell’azienda ed in parte all’esterno, senza bisogno di una postazione fissa . L’esigenza di creare lo “smart working” deriva da una problematica moderna: conciliare gli aspetti della vita lavorativa con quella privata al punto tale da scegliere soluzioni che diano un maggiore equilibrio tra le due sfere. Pensiamo ad esempio al telelavoro ed alla possibilità di poter operare per alcuni giorni direttamente da casa: la flessibilità degli orari ed il non dover impiegare tempo per raggiungere la sede aziendale possono facilitare alcuni impegni come la gestione stessa della casa, dei figli o dei genitori anziani.

Lo smart working tuttavia non è ancora decollato nel nostro paese: dall’analisi dei dati emerge un quadro incerto poiché solo 114 aziende in tutta Italia hanno richiesto gli sgravi contributivi, pari al 5% della retribuzione, per mettere in piedi tale progetto. Secondo l’Osservatorio sullo smart working del politecnico di Milano l’interesse per questa nuova tipologia di lavoro agile è in crescita tra le grandi aziende che nutrono interesse verso nuove sperimentazioni, mentre si muovono con molta cautela sia le piccole che le medie imprese e le PA che guardano con sospetto tali novità. Secondo l’Osservatorio in Italia gli smart worker sarebbero più di 300.000 e molti degli intervistati ha manifestato grandi soddisfazioni per il “lavoro agile” complice di un ritrovato benessere che migliora l’equilibrio tra la professione e la vita privata.

Umberto Buzzoni
Direttore Responsabile

Quando il parcheggio diventa reato di violenza privata.

Parcheggiare l’auto davanti al cancello di un’abitazione può essere considerato reato di violenza privata. La recente sentenza numero 40482/2018 emessa dalla Cassazione chiarisce le idee in merito: secondo i giudici colui che parcheggia davanti ad un cancello esercita un’azione costrittiva che non consente alla “vittima” di esprimere liberamente le proprie volontà. Si configura così il reato di violenza privata che comporta non solo una semplice multa. La sentenza quindi viene applicata sia per le abitazioni private che per quelle condominiali anche in assenza del cartello di passo carrabile. Sono ivi coinvolte tutte le tipologie di veicoli compresi quelli aziendali.

La sentenza è stata emessa nei confronti di un soggetto che, per giorni, aveva impedito la chiusura di un cancello posto sulla proprietà della vittima,  parcheggiandovi l’auto, impedendo quindi il transito regolare.  I giudici hanno deliberato quando segue “affinché un comportamento possa assumere rilevanza penale  esso deve determinare sulla vittima una coazione tale da porla nelle condizioni di subire una situazione non corrispondente al proprio volere”. In particolare, la violenza privata si identifica “attraverso l’uso di mezzi anomali diretti ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione”.  Lo stesso discorso vale anche nel caso in cui si occupi il parcheggio riservato ad un invalido, o se si parcheggia l’auto davanti ad un fabbricato in maniera tale da bloccare il passaggio ed impedirne il regolare accesso.

Umberto Buzzoni
Direttore Responsabile

Spazi condominiali e “pallonate”.

I bimbi di tutto il condominio si radunano per giocare a calcio nell’area sotto il palazzo ma quando la palla finisce sulle macchine causando danni chi ne risponde? Ecco cosa dice la legge al riguardo: le aree comuni possono essere utilizzate da tutti i condomini ma solo per l’uso naturale che di esse si può fare. Quindi non è possibile usare il parcheggio condominiale come parco giochi. Per maggiori informazioni si può leggere il regolamento condominiale in cui viene stabilito l’uso che si deve fare delle aree comuni. Il divieto di usare il cortile come area di gioco può essere deliberato anche dall’assemblea con una votazione presa a maggioranza dei presenti che rappresentino almeno il 50% dei millesimi dell’edificio. L’assemblea può anche autorizzare l’amministratore a stabilire multe verso chi viola tale disposizione, multe che possono partire da 200 euro ed arrivare fino ad 800 euro.

Nel caso di specie è dovuto il risarcimento per la pallonata alla macchina? Se dai controlli risulta che l’area in questione non poteva essere utilizzata con finalità ludiche il soggetto danneggiato ha diritto a farsi riparare l’auto. In  questo caso i genitori sono responsabili dei danni prodotti dai propri figli minorenni, sia quando questi sono sotto la loro diretta vigilanza e custodia che quando non lo sono. Se invece i ragazzi sono maggiorenni la responsabilità civile per il risarcimento del danno grava su di loro: in  questo caso sarà più difficile ottenerlo dato che non avendo ancora un lavoro ed essendo nullatenenti ogni azione esecutiva nei loro confronti non avrebbe alcun esito. Per ottenere il risarcimento bisogna dimostrare il danno con materiale fotografico e dare prova che quella ammaccatura è dipesa dalla pallonata e non da altri eventi precedenti. Chi può dire che la rientranza sullo sportello non sia stata causata da una manovra di uscita da un parcheggio? A tal fine, l’unico modo per fornire la prova certa che il danno sia stato prodotto dal ragazzo è la testimonianza di chi abbia visto l’episodio o l’ammissione di colpa del responsabile. In assenza di questo, poiché è il proprietario dell’auto a dover dimostrare il danno, egli non avrà elementi da far valere contro i genitori del colpevole.

Umberto Buzzoni
Direttore Responsabile

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