Cinema,“Il giovane favoloso”: Elio Germano è Giacomo Leopardi

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Dopo l’accoglienza al Festival di Venezia, – dove gli applausi ed i premi collaterali “Piccioni” (migliore colonna sonora) e “Pasinetti” (migliore interpretazione maschile) hanno supplito al mancato “Leone” – , ha raggiunto le sale cinematografiche italiane “Il giovane favoloso” per la regia di Mario Martone, ispirato alla vita ed al pensiero di Giacomo Leopardi.

Il poeta di Recanati rivive nella recitazione di Elio Germano, intensa e teatrale, tanto più nella necessità storica di contestualizzare i dialoghi, ricondotti al linguaggio ottocentesco, e di veicolare, con maggior immediatezza, la riproduzione lirica dei Canti e delle prose leopardiane.

La severità dell’educazione familiare, l’induzione paterna agli studi seppure amatissimi, la permanenza recanatese vissuta in termini di reclusione,  la triste compromissione fisica segnano il protagonista, che tuttavia reclama l’affrancamento delle meditazioni esistenziali dalla propria dolorosa esperienza, per ricondurne il flusso e l’esito all’immanenza del dubbio sulla condizione umana.

La trasposizione sul grande schermo passa per la fedele ricostruzione biografica e paesaggistica, ma soprattutto per la limatura dei nozionismi nel personaggio e dei formalismi scolastici nello spettatore: il reciproco annullamento consente, così, di mutuare la modernità del poeta nel presente e nel tempo assoluto dell’Uomo, come suggerisce la speculazione filosofica innescata dalle “Operette Morali”, delle quali il regista è puntuale conoscitore, nondimeno per l’adattamento per il teatro realizzato nel 2011 con Ippolita Di Majo, con lui sceneggiatrice del film.

Se infatti il primo cimento letterario privilegia la lirica della Natura e dei suoi elementi archetipici, la riflessione delle “Lettere”, dello “Zibaldone”, dei vari “Dialoghi”, incontrando la medesima fenomenologia naturale, ne propone, – nella rilettura di Mario Martone – , l’ingovernabilità e la distanza dagli uomini, gravati dalla sua “condanna” quale cessazione di amore, nell’accezione pasoliniana introdotta dalle “Lettere luterane”.

Così Leopardi-Germano anela invano all’amore della madre e di Fanny-Aspasia; mentre custodisce quello sordo del padre, trova conforto in quello tenero dei fratelli ed in quello leale dell’amico Ranieri, complice nel distacco dalla casa familiare e nel vagabondaggio letterario tra Firenze, Roma e Napoli.

Attraverso le tre città, infatti, si articola l’evoluzione del pensiero e della creazione artistica, dalla delusione dei circoli letterari fiorentini e dei retrivi paludamenti papalini romani fino alla vividezza partenopea, corrotta e carnale come nei passi di Malaparte, circense e cinematografica ante litteram come nelle scene di Fellini, attinta, – più in generale -,  alle stesse origini napoletane di Martone.

Il contrasto tra le buie passeggiate per i “bassi” rionali e la memoria dei colli marchigiani depone l’esasperazione della malattia e spinge, piuttosto, il protagonista verso il parossismo della meditazione cosmica, tra plurimi effluvi: i salmastri della terrazza di Torre del Greco, i febbrili dell’epidemia di colera, gli astrali del moto perpetuo dei cieli, i cinerei della artefatta eruzione vulcanica,  prelusiva alle tematiche de “La Ginestra”.

Oltre la prova attoriale di Germano e del cast, il risultato di congeniale prossimità allo spettatore è agevolato dalla fotografia di Renato Berta, realisticamente costruita sui luoghi biografici, – Casa Leopardi, la biblioteca del padre Monaldo, l’ “ermo colle” dell’ “Infinito”  – ,  e veristicamente pervasa dalla luminosità della pittura ottocentesca, chiamata a modellare plasticamente la rappresentazione femminile nelle pose raffinate, nei ricchi costumi e negli sguardi inquieti.

Ne scaturisce un esperimento concreto e concluso, diverso dall’evasione fantastica nel sogno d’amore di “Bright Star” (2009), il film di Jane Campion sul poeta John Keats. Fuori dagli accostamenti letterari, le due pellicole risolvono infatti la complessità del tema poetico in direzioni distinte: l’una, offrendo il sentimento alla dissolvenza luministica segnata dalla morte di Keats, come inscenata a Roma; l’altra, rimettendo all’immensità dell’Universo la recherche della mente e l’esercizio dell’anima, nella notte stellata del Golfo di Napoli, oltre ogni pessimismo professato.

Ed oltre la morte a Napoli, che il regista tace allo spettatore, traslandone l’assunzione a mito nel titolo del film, tratto dai versi di Anna Maria Ortese in  “Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi”:

 “Così ho pensato di andare verso la grotta, 
in fondo alla quale, in un paese di luce, 
dorme, da cento anni, il giovane favoloso.”

22 ottobre 2014

Petula Brafa